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1861 - 2011 L’Unità dell’Italia

La resistenza dei «Viva Maria!»

Così Arezzo cacciò i napoleonici. E le idee di libertà, pre-risorgimentali

«Signore, noi siamo a chiedervi perdono e per implorare il Vostro onnipotente aiuto, noi vogliamo combattere per Voi e siamo risoluti a morir piuttosto che veder Voi disprezzato e la Vostra Santissima Religione avvilita. Maria Santissima, otteneteci Voi forza, onde possiamo combattere per il Vostro divino Figliolo». Recitando questa preghiera, dietro gli stendardi con la Madonna del Conforto, migliaia di aretini e toscani riuscirono a cacciare le truppe di Napoleone. Erano i «Viva Maria! », l’insurrezione antifrancese e antigiacobina. Bande di contadini rozzi e fanatici, assetati di vendetta, per i liberali; alfieri della toscanità e della fede cattolica per i moderati. Il terremoto, annunciato dalle rivolte del 1790, si scatenò il 6 maggio 1799, ad Arezzo. La miccia si innescò ancora sotto la suggestione del miracolo del 15 febbraio 1796 quando un’immagine in terracotta, sporca e annerita, che si trovava nell’Ospizio aretino, divenne improvvisamente pulita e lucente e la notizia si sparse in un baleno tanto che il vescovo dispose che l’immagine fosse portata nella cattedrale (quella mattina c’era stata una forte scossa di terremoto e gli aretini, dato che le scosse da allora non si ripeterono più, ribattezzarono l’immagine Madonna del Conforto, tributandogli una grande devozione). Il 1799 si aprì con l’occupazione francese della Toscana. Sloggiati Granduca e simboli religiosi per far posto all’«Albero della Libertà», arrivò una pioggia di ordinanze, tasse e balzelli, annunciata da manifesti che invariabilmente iniziavano con la formula Nous voulons, portando i fiorentini a soprannominare i francesi «nuvoloni». L’insofferenza verso i «liberatori» non mancava e ad aprile, alla notizia delle sconfitte francesi in Lombardia, a Pistoia e Firenze furono bruciati manifesti e insegne repubblicane.

Sobillati da agenti austriaci e preti, secondo le cronache repubblicane, indignati ed esasperati da violenze e soprusi, secondo quelle tradizionaliste, le genti toscane nei giorni seguenti bruciarono l’«Albero della Libertà» a Terranova Bracciolini, a Montevarchi, Poppi, Dicomano, Volterra, Signa, facendo echeggiare per la prima volta il grido «Viva Maria!» mentre in Versilia si arrivò ad una vera guerriglia contro le guarnigioni repubblicane. Più aumentava l’insorgenza e più i proclami dei francesi divennero draconiani. Arezzo, da sempre fedele ai Lorena e religiosissima, scalpitava. La mattina del 6 maggio dal contado arrivarono in centinaia per festeggiare i 30 anni di Ferdinando, e da Porta S. Spirito entrò una carrozza con una vecchia signora che agitava la bandiera austriaca. «Viva Maria!» iniziò ad urlare la gente e in tutta Arezzo si sparse la voce che era la stessa la Madonna del Conforto seduta in carrozza, assieme a San Donato. Immediatamente gli aretini distrussero l’«Albero della Libertà», eressero al suo posto la Croce, liberarono i prigionieri dei giacobini, presero le armi e i vessilli granducali, mentre i francesi fuggivano lasciando la città in mano ai rivoltosi. Così il giorno dopo un Te Deum di ringraziamento si tenne in Duomo e fu nominata una giunta civile infarcita di nobili. Le forze degli insorti furono divise in compagnie di fanti, affiancate da uno squadrone di cavalieri, tutti figli della migliore aristocrazia, con la Madonna del Conforto nominata Generalissima dell’Armata. L’errore dei francesi, che consegnarono Arezzo agli insorti, e il loro traccheggiamento nei giorni successivi fu decisivo. I «Viva Maria!» come già si chiamavano, presero Cortona, la Verna, il Casentino e l’ondata di arresti scatenata dal generale Gaultier ed i proclami del commissario Reinhard invece di fiaccare la rivolta portarono altre forze tra le sue fila. A metà maggio ad Arezzo l’esercito senza uniforme, guidato dal cavaliere di Gerusalemme G. B. Albergotti, ma con santini della Madonna del Conforto attaccati a giacche e cappelli, contava 18.000 uomini e il sacerdote Donato Landi si proclamò «commissario di guerra».

L’entusiasmo divenne incontenibile quando l’armata polacca, alleata di Napoleone, non riuscì a prendere Cortona e lasciò la Toscana per andare sui campi di battaglia del Nord Italia. Così a giugno l’armata dei «Viva Maria!», che accanto ai contadini comprendeva anche ribaldi e preti ed era arrivata a 30.000 uomini (grazie ai soldi degli austriaci e all’aiuto degli inglesi, sempre in prima fila quando c’era da contrastare Napoleone), mosse alla conquista dell’intero Granducato. Il 28 giugno, alla guida del nobile e ricco Lorenzo Mari e della bella e giovane moglie Alessandra, Sandrina, Cini che sfolgorava su un cavallo bianco (e che era amante del console inglese Wyndham), gli aretini assalirono Siena. Nonostante la resistenza dei molti giacobini, i «Viva Maria!» entrarono in città e lì avvenne la tragedia che offuscò il movimento e la «civile» Toscana. Il ghetto ebraico fu preso d’assalto, le case depredate, tredici ebrei furono uccisi e alcuni dei loro corpi bruciati in piazza del Campo, nel più grave dei molti episodi di antisemitismo (a Monte San Savino, ad esempio, fu bruciata la sinagoga, mentre a Pitigliano la guardia cittadina allertata dai notabili locali bloccò sul nascere il sacco della parte ebraica della cittadina). Solo la sera le violenze cessarono, ma agli ebrei fu imposta — e riscossa — una tassa di 26.000 lire.

A luglio fu la volta della capitale, Firenze, mentre nelle cittadine liberate le prigioni si vuotano per riempirsi immediatamente di giacobini o «filo-francesi». Dopo aver trattato con il Senato fiorentino, il giorno 7 «nel pomeriggio dalla Porta di San Niccolò in numero di 2.500 tra fanti e cavalli, guidati dalla celebre Sandrina, vestita metà da donna, metà da soldato, che entusiasmava quel prode esercito, la ciurmaglia di ribelli aretini entrò in Firenze— scrisse ironico Giuseppe Conti — mentre altri 2.500 aretini, entrarono da Porta alla Croce urlando tutti e schiamazzando con un diavoleto strepitoso», mentre un frate zoccolante portava una grande croce in spalla (che i maligni dicevano essere di sughero). Facile immaginare lo sgomento degli snob fiorentini, vedendo quell’armata di bifolchi padrona della loro città: «Gli aretini —dice ancora Conti—avevano le immagini della Madonna appese sugli abiti e gridando Viva Maria e Viva Gesù prendevano e rubavano tutto quanto loro capitava sotto», col risultato che i fiorentini li affrontavano dicendo ‘‘Viva Gesù e Maria, ma questa l’è roba mia!’’». Per giorni, aretini, austriaci e cosacchi russi, arrivati in rinforzo, bivaccarono in città e poi i «Viva Maria!» tornarono a combattere, non prima di aver fatto incarcerare alla Fortezza il vescovo giansenista Scipione de’ Ricci.

In Maremma le truppe di Volterra guidate dai nobili fratelli Curzio e Marcello Inghirami

cacciarono i francesi e nei primi giorni di agosto gli aretini entrarono a Perugia. Arezzo si sentiva, ed era in quei giorni, la nuova capitale toscana e tra Deputazione aretina e Senato fiorentino scoppiò una rivalità feroce. Gli aretini tentarono di farsi riconoscere come stato automono, ma la missione a Vienna fallì e i primi di settembre la Deputazione fu sciolta ed i «Viva Maria!» disarmati, facendo tirare un respiro di sollievo a Firenze. Il 10 febbraio 1800 un motu proprio del Granduca nominò Arezzo nuova provincia, come premio per la sua fedeltà ai Lorena e alla Fede, ma la ruota del destino stava per cambiare. Il 14 giugno Napoleone vinse la battaglia a Marengo e il reggente granducale, marchese Annibale Sommariva, non fece altro che fuggire quando le truppe napoleoniche si presentarono all’orizzonte. Il 18 ottobre 5.000 francesi assediarono Arezzo e il giorno dopo, mentre gli aretini trattavano la resa, il generale Monnier ordinò un attacco a sorpresa e sfondò alla Porta di San Loretino.

La vendetta francese fu terribile— quattro giorni di saccheggio ininterrotto e 40 cittadini uccisi — la città conobbe un fortissimo declino economico e solo nel 1814 riacquistò la libertà, assieme alla Toscana, con la restaurazione di Ferdinando III Lorena. La Madonna del Conforto fu solennemente riportata nella cattedrale dopo l’esilio forzato imposto dai francesi, Mari e gli altri tornarono in auge, i «giacobini » dovettero di nuovo fare buon viso a cattivo gioco, salvo passare molte delle loro idee rivoluzionarie ai patrioti che dettero vita al Risorgimento, mentre ognuno narrò la propria versione dell’insurrezione. Storia vecchia, sepolta? Macchè. Lo sanno bene ad Arezzo che da anni litiga per una piazza ai «Viva Maria!». L’intitolazione concessa dall’amministrazione di centrodestra nel 2001 su richiesta del vescovo Gualtiero Bassetti, arrivata per celebrare i 200 anni della Provincia e «l’insurrezione popolare », è stata revocata nel 2007 dalla giunta di centrosinistra (con tanto di targa smurata e depositata presso l’archivio storico del Comune) perché «aveva determinato divisioni nella cittadinanza e nell’opinione pubblica e osservazioni critiche delle comunità ebraiche». Risultato, oggi la piazzetta a due passi dalla casa di Petrarca è intitolata alla Madonna del Conforto. Con un compromesso che non ha accontentato nessuno. 4 - Continua

Mauro Bonciani
16 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA

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la resistenza dei viva maria 16.2.2011 Bonciani
03.03|15:41

Le considerazioni sull'insorgenza di Arezzo dimostrano una conoscenza dei fatti come dalla storiografia corrente,ma dagli ultimi documenti trovati si evince e si dimostra che la storia è un'altra soprattutto riguardo a chi promosse la resistenza. Se ha occasione di passare da Arezzo,mi mandi una posta e ne potremo parlare volentieri,saluti

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