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1861-2011 L’Unità dell’Italia

Il barone tricolore

Un leader moralista, rigido, appassionato Così Bettino Ricasoli fondò una nazione

Ha avuto perfino l’onore di una biografia mentre era vivo. E lui stesso ha contribuito alla costruzione del mito del castellano così orgoglioso da rifiutare dai Savoia livrea e «paghetta» come primo ministro e mal sopportare —ripagato— la corte, il Re e Cavour. Bettino Ricasoli nasce nel 1809, figlio del barone Luigi e di Elisabetta Peruzzi. Il barone scopre la politica tardi, dopo anni in cui si è dedicato all’agricoltura, ad accrescere il patrimonio di famiglia, all’istruzione cristiana dei suoi contadini —ogni domenica spiegava loro il catechismo— fondando anche con altri 99 soci la Cassa di Risparmio di Firenze per stimolare investimenti ed affari nella Toscanina lorenese che sembrava immobile. Dal suo castello di Brolio, nel Chianti senese, Ricasoli, che viveva da monaco tanto da essere soprannominato l’«orso dell’Appennino», si affaccia sul palcoscenico fiorentino nel marzo 1847 con una Memoria sullo stato della Toscana indirizzata al Granduca da cui aveva rifiutato la carica di Ciambellano. Non contento il barone scrive al clero toscano, accusandolo di moltiplicare «feste e riti per fine di guadagno» e fonda La Patria, primo giornale in Italia a diventare quotidiano e portabandiera della destra. Pochi mesi dopo il Granduca lo invia a Torino dal re Carlo Alberto per mediare la soluzione del conflitto scoppiato per il passaggio del ducato di Lucca alla Toscana. La missione causa una svolta nelle sue idee politiche: decide che è indispensabile «compromettere il re di Piemonte nella politica italiana». Diventato gonfaloniere—cioè sindaco—di Firenze nel gennaio del 1848 vive in prima linea quell’anno formidabile. Durante la rivoluzione, giudicando pessimo il regime dei mazziniani Giuseppe Montanelli e Francesco Guerrazzi, è tra i moderati che tramano per il ritorno del Granduca Leopoldo II, salvo poi rinunciare alla carica di gonfaloniere e ritirarsi a vita privata deluso dalla svolta reazionaria del Lorena.

Il barone si ributta nell’altra passione della sua vita, l’agricoltura, e negli esperimenti in enologia, padrone onnipresente e rigoroso nei suoi possedimenti. In Toscana restano le odiate truppe austriache, ma il decennio della restaurazione sta per finire: nella capitale e nelle altre città mazziniani, patrioti, riformatori e massoni continuano ad erodere il consenso del Granduca Canapone, mentre Garibaldi incendia gli animi. Nell’aprile 1859 scoppia la rivoluzione tranquilla guidata dal marchese Ferdinando Bartolommei e dal popolano Giuseppe Dolfi e nasce il «governo provvisorio toscano» che durerà 22 mesi, fino alla nascita del Regno d’Italia. A Bettino Ricasoli, (che tutti già chiamavano il Barone di ferro, sia per la sua rigidità morale e di comportamento, sia perché correva voce che si chiudesse nell’armatura del suo barone omonimo vissuto 500 anni prima) va il ministero degli interni e da quella posizione pilota la politica toscana e italiana. «Su tutti, sui vecchi pentiti e sui giovani anelanti, sui ribelli piegati e sui conservatori esitanti, si leva una figura dominante, un leader all’antica —scrisse Giovanni Spadolini— sintesi della Toscana duecentesca e all’Italia unitaria, frammento di medioevo e anticipazione del mondo nuovo, emulo di Savonarola, feudatario di una volta e futuro presidente del consiglio: Bettino Ricasoli». Il fiero barone emana proclami, limita la libertà di stampa, governa la Toscana come fosse Brolio, fonda La Nazione e continua a guardare al Piemonte.

Con la pace di Villafranca, il primo agosto 1859, il commissario straordinario dei Savoia cede il potere al governo provvisorio toscano, dando inizio alla dittatura ricasoliana. Deciso a favorire l’unità d’Italia, il barone non esita ad avere contatti con Garibaldi e con Mazzini (anche se non oserà incontrarlo quando si rifugia a Firenze, sotto il suo sguardo benevolo) e fa orecchie da mercante alle pressioni francesi per un Regno d’Etruria staccato da quello dei Savoia. Instancabile, dalla sua stanza in Palazzo Vecchio, in cui la luce è accesa dall’alba a mezzanotte, Ricasoli promuove la riforma giudiziaria, elettorale, universitaria, municipale, adotta la lira piemontese e fa realizzare la linea ferroviaria Arezzo-Firenze, «valorizzando » così le sue tenute di Terranuova, come del resto aveva fatto promuovendo la costruzione della strada Chiantigiana tra Siena e Firenze e avvicinando il suo Chianti alla capitale. Impone contro i tentennamenti di Cavour e Vittorio Emanuele il plebiscito del marzo 1860 per unire la Toscana al Piemonte, fa sì che il voto si svolga senza incidenti e sorprese (per l’annessione al regno di Sardegna si pronunciano in 366.571, contro in 14.925), consegna al Re la Toscana, adirandosi perché Vittorio Emanuele «accoglie» il plebiscito, non lo «accetta». Ricasoli nel mitico 1860 non ostacola i garibaldini, pur frenando i repubblicani che vogliono invadere lo Stato della Chiesa, e manda al Savoia l’incredibile telegramma con cui gli ordina di andare a Teano: «Tutti gli italiani si domandano dov’è il Re e che fa il governo. Garibaldi percorre trionfalmente il Reame di Napoli e il Re non si muove. Il Re monti a cavallo e chiami intorno a sè la Nazione». Il dittatore della Toscana resta in sella fino al febbraio 1861 quando si siede nel neonato Parlamento del Regno d’Italia e alla morte di Cavour Re e parlamentari pensano a lui, ricordando la frase del conte, «Se morissi domani il mio successore è designato ». Ricasoli è primo ministro dal 12 giugno 1861 al 3marzo 1862 e governa mal sopportando le incursioni politiche di Vittorio Emanuele II che lo avversa e a cui il barone ricorda ogni volta che quando i Savoia comandavano sulle pecore i Ricasoli guidavano uomini e castelli.

Costretto alle dimissioni, criticato per un affarismo che sfiora la speculazione, si prende la rivincita tornando presidente del consiglio dei ministri nel giugno 1866 e governando nella sua Firenze capitale d’Italia (evento che lui non avrebbe voluto, «è una tazza di veleno!» commentò alla notizia del trasferimento sull’Arno della capitale). Ma la fortuna — come disse poi—non è con lui. Il barone, dopo le cocenti sconfitte nella Terza Guerra di Indipendenza, cade sul problema dei rapporti Stato-Chiesa ma soprattutto sulla sua scarsa duttilità, sull’altera distanza con cui tratta parlamentari e schieramenti. Ricasoli si dimette nella primavera del 1867 e pur rimanendo punto di riferimento della destra, si allontana per sempre dalla politica attiva rifugiandosi nella carica di sindaco di Gaiole in Chianti. Muore nel suo castello di Brolio nel 1880, dopo aver subìto l’onta del primo sciopero dei suoi contadini, e la leggenda del suo fantasma che gira a cavallo inizia immediatamente a passare di bocca in bocca. Oggi resta la sua famiglia con Francesco, 32esimo barone di Brolio, e il vino Chianti come lo «inventò» (7/10 di Sangiovese, 2/10 di Canaiolo, 1/10 di Malvasia o Trebbiano). «Essere un suo discendente mi rende orgogliosissimo—spiega Francesco Ricasoli—e mi dispiace solo che ero troppo piccolo per ricordare i racconti di mia bisnonna Giuliana, nata nel 1859, che lo aveva conosciuto bene e che ci parlava di lui». Francesco da bambino ha giocato, si è anche nascosto forse, nelle famose armature e nel 2009, in occasione del bicentenario della nascita dello statista, ha aperto nel castello di Brolio il museo dedicato a Bettino. «Trovo che il suo ruolo sia stato poco valorizzato —aggiunge— Senza di lui, senza l’adesione della Toscana al Regno di Sardegna non ci sarebbe stato ‘‘il calcio d’inizio’’ dell’unità del Paese». E il fantasma? «È una vecchia storia —sorride il barone— c’è chi ci crede e chi no. Io non l’ho mai visto, ma conviviamo con questa leggenda da secoli. Come conviviamo con la sua eredità, ad iniziare dall’attività dell’azienda vinicola il cui apporto è ancora fondamentale per la famiglia. E il mio avo non era duro: era solo riservato, non amava corti e feste». 8— Continua

Mauro Bonciani
16 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA

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