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1861-2011 L’Unità dell’Italia

Dittatura & libertà

Francesco Guerrazzi, il tribuno rebubblicano che per 16 giorni governò la regione. Al confino inventò il romanzo patriottico

Sono tutti d’accordo: lui non c’entra nulla con quell’uomo seduto in poltrona, sopracciglia alzate, con un interrogativo sulle labbra e nella mente. Era, al contrario, sanguigno e ardente, polemico e arringatore di folle, di granitiche certezze, orgoglioso come solo i toscani sanno esserlo. Non c’entra nulla con la statua seduta al centro della piazza omonima che la sua città gli ha dedicato anche perché fin da giovane è andato di corsa. Francesco Domenico Guerrazzi, intelletto precoce, da Livorno andò a studiare all’università di Pisa e a soli 16 anni, per aver commentato a voce alta al caffè dell’Ussaro i giornali che riportavano le notizie di tumulti a Napoli contro i Borbone, fu bandito dell’ateneo. Adiratissimo, andò a Firenze, a parlare con il presidente del Buon Governo (in pratica l’ufficio della polizia politica del Granduca), Aurelio Pilotini, per avere giustizia e di fronte al no del prestigioso interlocutore invece di far buon viso a cattivo gioco lo invitò a dimettersi. A Pisa Guerrazzi conobbe Byron, rimanendone affascinato, e intanto si laureò in legge. Fare l’avvocato era però l’ultimo dei suoi pensieri: scrisse due opere pervase dall’esempio del grande poeta inglese, iniziò a collaborare con la progressista Nuova Antologia di Giovan Pietro Vieusseux, dette alle stampe il romanzo La battaglia di Benevento, pietra miliare della letteratura risorgimentale. Nel 1828 Francesco Domenico, con l’amico Carlo Bini, fondò il giornale L’Indicatore Livornese decisamente mazziniano e repubblicano, tanto che venne soppresso nel 1830, anno in cui lui venne confinato a Montepulciano per sei mesi.

Il «confino» gli permise di scrivere la sua opera più famosa L’assedio di Firenze, retorica, ma intrisa di patriottismo (e grande successo commerciale) e nella cittadina ricevette la visita di Giuseppe Mazzini, un incontro che secondo alcuni cementò un’amicizia, secondo altri vide invece il Mazzini perplesso davanti all’eloquenza plateale del tribuno livornese. Da Montalcino Guerrazzi, anticlericale convinto ed esponente dei Neoghibellini che indicavano nello Stato della Chiesa l’eterno ostacolo all’unità d’Italia (in contrapposizione ai Neoguelfi che esaltavano Papa Pio IX), andò nella capitale. In riva all’Arno strinse rapporti con tutti i patrioti, da Giacomo Leopardi a Gino Capponi, tramando per rovesciare i Lorena, ma la polizia granducale lo teneva d’occhio e gli fu intimato di tornare a Livorno. Nel 1833 i membri della Giovane Italia si attivarono su ordine di Mazzini per «insorgere rapidamente, energicamente, repubblicanamente, giovanilmente » a Siena, Firenze, Poggibonsi, Chiusi e Livorno: risultato, Guerrazzi venne arrestato e per tre mesi rinchiuso nella fortezza di Portoferraio «fra omicidi, donne di mala fama e facinorosi di ogni maniera» dove conobbe un certo Antonio Meucci, il fiorentino che anni dopo negli Stati Uniti brevetterà il telefono. La dura detenzione sembrò «servire»: Guerrazzi si gettò nella letteratura, abbandonando la politica attiva, ma nel ’47, «ai primi fremiti di libertà che novellamente corsero l’Italia», tornò allo scoperto con una lettera che invitava il Mazzini a tornare in Toscana. Il palcoscenico principale non poteva che essere Firenze dove l’avvocato-patriota si affrettò ad andare, arringando il popolo e irridendo i moderati. Arrestato nel gennaio 1848, liberato a marzo, riapparve a Firenze e gli elettori di San Frediano lo elessero nel Consiglio generale toscano. La Toscana era sottosopra, Livorno, cosmopolita e battagliera, in rivolta e Guerrazzi venne inviato in città per evitare violenze, missione riuscita che gli fruttò il ministero dell’interno. È il 1849 e Leopoldo II, poco convinto del nuovo clima e delle concessioni che ha dovuto fare, fugge dalla Toscana.

La seduta del parlamento toscano dell’ 8 febbraio è drammatica: Giovan Battista Niccolini (l’autore di opere teatrali il cui monumento funebre in Santa Croce sembra aver ispirato la Statua della Libertà che giganteggia davanti a New York) grida al presidente dell’assemblea: «Cittadino presidente, il popolo ha dichiarato che essendo stato abbandonato dal sovrano, il quale è vilmente fuggito, mancando alla sua fede e al suo onore di principe, il popolo stesso rientra dei suoi diritti... Il popolo— prosegue sovrastando il tumulto, mentre i deputati della sinistra cercano di impedire a quelli della destra di lasciare l’aula —proclama il governo provvisorio. I triumviri sono Francesco Domenico Guerrazzi, Giuseppe Montanelli e Giuseppe Mazzoni!». Per il livornese l’apoteosi arriva la notte del 27 marzo, quando viene nominato dittatore della Toscana. Guerrazzi si getta a corpo morto nel nuovo ruolo, ma il 12 aprile arriva la restaurazione anche per opera del barone Bettino Ricasoli, con il popolo che nelle strade invoca il Granduca. Fedele al suo temperamento, quello che per sedici giorni è stato il dittatore non fugge, ma attende a piè fermo l’arresto, mentre la sua Livorno è bombardata per due giorni dal mare dalle navi austriache. Finisce a Forte Belvedere, alla fortezza di Volterra, alle Murate di Firenze e il suo processo fa scrivere e discutere. Condannato all’ergastolo, dopo tre anni vede la pena commutata al confino in Corsica e nel 1857 fugge a Genova, protetto dal governo piemontese del Cavour, dove rimase «fino a che il danno e la vergogna della Patria durarono» come ricordò, fino cioè all’unità d’Italia.

Dal 1861 al 1870 fu deputato, militando nella sinistra repubblicana, fiero nemico «della setta dei moderati» in cui includeva il Ricasoli, e vicino a Garibaldi. Scrive, instancabilmente, libelli, satire e romanzi (anche se non supererà più il successo di Beatrice Cenci edito nel 1854) «parlando al popolo, perché seguitato e perseguitato chi sentì dirsi ‘‘scrivi’’ ha da scrivere ». Deluso dalla mancata rielezione e amareggiato dalle voci che lo volevano arricchitosi grazie alla politica, Francesco Domenico si ritirò a Cecina nella villa con podere che aveva acquistato: «L’ingratitudine è la moneta ordinaria con la quale pagano gli uomini», rispondeva a chi gli chiedeva il perché del volontario esilio. Morì improvvisamente il 23 settembre 1873 e i funerali furono grandiosi. Di sé scrisse «qui riposa un uomo che ebbe la fortuna nemica fino dall’ora che gli versarono il capo l’acqua del battesimo. Superato non vinto, amò, soffrì e si travagliò del continuo pel decoro della Patria» e Livorno decretò «al suo gran figliolo » un monumento. «A F.D. Guerrazzi, la Patria 1885» si legge sul basamento che oggi è circondato da auto e motorini. Ma, senza dubbio, Guerrazzi avrebbe preferito leggervi le parole, con la maiuscola, che scelse per il suo testamento: «Virtù, Libertà». 6—Continua

Mauro Bonciani
16 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA

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