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1861-2011 L'Unità dell'italia

La dolce ribellione

Giuseppe Dolfi, il fornaio amico dei nobili. Che costrinse i Lorena all’esilio, per sempre

Quella notte forse era l’unico che non sapeva cosa stesse accadendo. Nelle case umili e nei palazzi dei ricchi le donne cucivano tricolori e coccarde, i patrioti si ritrovavano in luoghi fidati e altrettanto facevano i conservatori. La Guardia Civica era stata contattata per evitare che sparasse sul popolo, i diplomatici stavano con le antenne ritte. E mentre il Granduca Leopoldo II dormiva, Giuseppe Dolfi guidava con il marchese Ferdinando Bartolommei gli ultimi preparativi. Era il 26 aprile 1859 che sfumava nell’alba del 27, il giorno della rivoluzione che cacciò i Lorena dalla Toscana aprendo le porte all’Unità d’Italia. Il 25 un corteo di 3.000 fiorentini aveva sfilato contro il generale Ferrari da Grado, comandante delle truppe toscane ma legato agli austriaci e la sera i ministri avevano presentato le dimissioni al Granduca. Il 26 si erano inseguite riunioni e manifestazioni e il 27 vide il successo più grande del Dolfi, il fornaio che portava i pasticcini alla corte di Palazzo Pitti ma che era fervente mazziniano. Aveva allora 41 anni Beppe Dolfi e non dimenticò mai l’ebbrezza di quel giorno. La folla in piazza di Barbano, la paura per possibili colpi di coda del Granduca e delle sue truppe (a lungo corse voce che i Lorena avessero pensato di bombardare la città, senza però essere ubbiditi dagli ufficiali del Forte e della Fortezza), il corteo festante con i tricolori che passando per via S. Apollonia —oggi non a caso ribattezzata via XXVII Aprile— arrivò in piazza Signoria, le carrozze di Canapone che presero la strada per l’esilio volontario senza che un colpo fosse sparato, le campane che suonavano festanti in tutta la città, l’insediamento del governo dei cittadini toscani, non più sudditi.

Fu il culmine di un cammino iniziato molti anni prima e interrotto nel 1869 da una morte improvvisa. Giuseppe Dolfi, Beppe per tutti, nasce a Firenze da babbo fornaio e famiglia popolare ma che aveva raggiunto una certa agiatezza. Ateo, con educazione casalinga, gioviale, si avvicina presto alla Carboneria e agli ideali di un’Italia unita e poi aderisce alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Nel 1848, l’anno delle rivoluzioni in mezza Europa, stringe i rapporti con i patrioti e diventa uno dei principali referenti dei mazziniani in Toscana. Con la restaurazione prosegue la sua azione repubblicana, tenuto d’occhio dalla polizia ma senza subire il carcere. Amico di operai e nobili, di artisti e artigiani, dalla sua bottega di San Lorenzo costruisce senza sosta una rete di persone disposte a sacrificarsi e lottare per l’Italia che non c’era ancora. Nel 1857 Dolfi si adopera per trovare fondi per la spedizione di Pisacane, ma anche per frenare chi voleva scatenare l’insurrezione contro i Lorena. Quando però scoppia la sommossa di Livorno (nella notte tra il 29 e 30 giugno, ma il moto durò poche ore; seguirono fucilazioni, arresti e condanne ai lavori forzati) Dolfi va dai rivoluzionari labronici e la polizia gli piomba addosso, spedendolo poi in cella al Bargello dove rimane alcuni giorni. All’uscita dal carcere Dolfi, con il marchese Bartolommei, era il capo riconosciuto dei «popolari», la corrente che non voleva trattare con i Lorena ma pretendeva la loro partenza. Era una singolare coppia di rivoluzionari, l’ultimo esponente di una casata marchigiana risalente al 1100 e arrivata a Firenze a fine del Trecento e il popolano di uno dei quartieri più poveri di Firenze, ma l’asse funzionò.

L’ora x arrivò nella primavera del 1859. I rivoluzionari stabilirono che il 27 il popolo si sarebbe riversato in piazza all’apparire del tricolore sulla torre dei Bartolommei, a due passi dal Ponte Vecchio. «Nella mattina di un memorando giorno fu visto —scrisse un cronista che raccontava, fiero, di essere amico di vecchia data di Beppe Dolfi— il generoso popolano in mezzo alla folla che sboccava da ogni parte nella piazza chiamata oggi dell’Indipendenza, proclamare imperturbato la libertà e farsi consigliero di miti e civili propositi perché il giorno solenne non fosse contristato da scene di violenza e di sangue; mentre incoraggiando gli animi popolari al santissimo scopo, impedì, in gran parte, che non si venisse a concessioni colla famiglia granducale. Ripugnandogli scendere a patti con chi ogni patto aveva tradito, contaminando la Toscana colle stragi». Dolfi, pur rimanendo repubblicano, si era intanto avvicinato all’idea di unire la Toscana al Regno di Sardegna e si trovò vicino al Barone di Ferro, Bettino Ricasoli, nel percorso che portò al plebiscito del marzo 1860 per unire la Toscana al Piemonte, rintuzzando i tentativi di dare vita ad un Regno di Etruria, ben visto dai francesi e dai nostalgici dei Lorena, ma anche dai federalisti come Giovan Piero Vieusseux, Vincenzo Gioberti e Carlo Cattaneo. I rapporti con Ricasoli gli permisero di ospitare il ricercatissimo Giuseppe Mazzini per pochi giorni, ma soprattutto di contribuire all’invio di soldi e uomini a Giuseppe Garibaldi, che a Genova preparava la spedizione dei Mille. Fu Dolfi ad arruolare i 5.000 volontari che avrebbero dovuto invadere i territori dello Stato della Chiesa al comando di Giovanni Nicotera, tentativo che fallì per l’intervento di Ricasoli, sollecitato da Cavour, voltafaccia che fece allontanare il popolano dall’aristocratico.

Realizzato il Regno d’Italia, il fornaio fu tra i fondatori del quotidiano La Nuova Europa, scrisse sulla mazziniana Unità d’Italia, creò la Fratellanza Artigiana, che raccoglieva tutte le organizzazioni operai fiorentine, ospitò in casa Michail Bakunin, su invito di Mazzini — «Vi raccomando il nostro Bakunin, il cui nome è onorato dai democratici del mondo intero» — e proprio a Firenze il famoso anarchico fondò la clandestina Fratellanza. Dolfi tenne sempre stretti rapporti con Garibaldi, con Alberto Mario e sua moglie Jessie White ed aderì alla Massoneria, entrando nel 1862 nella loggia «La Concordia». Ormai personaggio pubblico (il Re gli concesse l’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, che lui rifiutò) si impegnò per migliorare le condizioni della gente delle «case basse», come venivano identificati dalla polizia i popolani che partecipavano ai tumulti, continuando ad adoperarsi per i comitati di appoggio a Garibaldi, con l’obiettivo di conquistare Roma e abbattere il potere temporale del Papa. Memorabile fu la visita dell’Eroe dei Due Mondi a Firenze, con Dolfi seduto accanto a lui in carrozza tra due ali di folla entusiasta nel 1866, con la città assurta al rango di Capitale d’Italia, ma ormai l’ardore del Dolfi si stemperava in una serena vecchiaia, complici le divisioni dei mazziniani che gli rimproverano di essere diventato moderato. Morì in un afoso 26 luglio 1869 e il suo funerale fu affollatissimo, accompagnato «dal compianto d’una intiera città ed il rispetto di tutti gli onesti italiani», e segnò la fine di una pagina di Firenze e di un certo mondo di rivoluzionari risorgimentali. «Il Dolfi —scrisse La Nazione, il giornale fondato dal barone Ricasoli, rendendo onore all’avversario —stette in altre file e noi dovemmo non di rado combatterlo; ma rendemmo sempre omaggio al suo patriottismo; e il maggior titolo di lode per la sua memoria è che riuscì, in mezzo al partito che usufruiva la popolarità, a mantenersi intero e onesto». 7— Continua

Mauro Bonciani
16 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA

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