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1861-2011 L’Unità dell’Italia

Mazzini, l’inglese

Morì a Pisa nel 1872, e gli studenti chiusero per lutto l’Università Nascosto in casa da Nathan Rosselli si faceva chiamare George Brown

L’Apostolo del Risorgimento già malato al suo arrivo a Pisa, ospite di Janet Nathan Rosselli, peggiorava ogni giorno. La stanza che gli era stata riservata era al secondo piano e da tempo non passeggiava più neppure nel piccolo giardino. Pochi giorni prima un docente della Normale, Ferdinando Martini, passando per via della Maddalena, incontrò il medico Rossini che stava uscendo proprio da casa Nathan Rosselli. «Oh! Giusto lei, dottore: chi ci sta al numero 38?». «I signori Rosselli». «Ci vidi tempo fa entrare un signore smunto, bassotto; deve essere un forestiere». «È il mio malato. Lo lascio ora: il signor Brown». I primi giorni di quel marzo 1872 George Brown si sentiva oppresso, non si gustava neppure il consueto sigaro toscano, né il caffè di cui non poteva fare a meno, ma leggeva lo stesso, come aveva fatto fin da quando era arrivato a Pisa quell’inverno. Leggeva e pensava alla sua lunga e tormentata vita, ai suoi viaggi in Toscana. Il primo era stato che era ancora giovane. Dopo essersi laureato nel 1827 fu iniziato alla Carboneria e proprio per creare cellule carbonare, nel 1830 arrivò in Toscana. A Livorno, con l’aiuto di Carlo Bini, fondò la Vendita Centrale toscana e si meritò le attenzioni della polizia che lo costrinse a tornare in Liguria, dove fu arrestato e incarcerato nel dicembre di quell’anno. Alla scarcerazione lo attendeva un decreto regio: o confino o esilio e lui scelse l’esilio, approdando a Parigi e poi a Marsiglia dove (considerando la Carboneria ormai troppo chiusa in se stessa) fondò la Giovine Italia sotto il motto «Dio e Popolo» ed entrò in contatto con Filippo Buonarroti, il «rivoluzionario di professione » nato a Pisa e discendente di Michelangelo.

Solo nel 1849, sull’onda dei fatti della Repubblica Romana, tornò in Toscana. Si recò nella capitale Firenze dove si era insediato, dopo la fuga del Granduca Leopoldo II, il governo repubblicano controllato da Francesco Domenico Guerrazzi e da Giuseppe Montanelli. Obiettivo, convincere i repubblicani fiorentini ad unirsi con i repubblicani romani e dare vita ad un embrione di Italia unita, come disse alla folla il 18 febbraio. Guerrazzi però gli negò ogni appoggio e l’esule lasciò Firenze per Roma dove Giuseppe Garibaldi guidava le truppe della Repubblica. Passeranno altri dieci anni prima che —ormai inseguito dalla condanna a morte e famosissimo— tornasse a Firenze. Il Piemonte aveva dichiarato guerra all’Austria, dando il via alla seconda guerra di indipendenza e in Palazzo Vecchio regnava Bettino Ricasoli, il Barone di ferro. Ricasoli seppe dell’arrivo del pericoloso ricercato, che abitava protetto dal Giuseppe Dolfi, il fornaio rivoluzionario, a due passi dal Duomo, ma non le fece arrestare. Insieme alla rete di patrioti lavorò per raccogliere fondi e uomini per una spedizione in Sicilia (in città contava anche sulla devozione e l’aiuto di Jesse White Mario, che lo aveva conosciuto a Londra nel 1856, votandosi da quel momento alla causa dell’Italia), ma alla fine la pressione della polizia del dittatore di Brolio lo indusse a lasciare Firenze per tornare in Svizzera. Sdegnato dalla soluzione monarchica dell’Unità d’Italia —a Napoli aveva tentato di far cambiare idea a Garibaldi, di evitare la consegna del Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele— visse a Lugano e a Londra e nel fatidico 1870 tornò in Italia sotto falso nome, passando a Livorno, Firenze e Pisa e cercando di arrivare all’agognata liberazione di Roma attraverso moti popolari. Arrestato e chiuso nel duro carcere militare di Gaeta fu nuovamente costretto all’esilio.

L’Apostolo, dopo altro girovagare, decise di rientrare in Italia, fedele ai suoi ideali repubblicani, e si rifugia nella tranquilla Pisa. Il 6 marzo peggiora ed è visitato dal professor Minati, dell’Università pisana, che lo trova gravissimo, il 9 «il malato divenne afonico e cominciò a manifestarsi una leggiera esaltazione mentale» mentre Silvestro Lega, il pittore macchiaiolo fervente repubblicano e volontario nel 1848, lo ritrae in punto di morte. Il 10 il presunto inglese chiede di parlare con il dottore che è nella stanza accanto. «Gli stese la mano —racconta Martini—fece per parlare... ricadde la testa dalla parte del cuore... era morto!». La notizia della morte di Giuseppe Mazzini, questo era il vero nome di George Brown, si sparse in un lampo. Gli studenti dell’Ateneo chiusero porte e finestre dell’istituto a lutto, nella casa dei Nathan Rosselli arrivò Enrico Mayer, amico di gioventù del Mazzini e frequentatore del circolo fiorentino del Vieusseuex, mentre da Lodi si precipitò il professor Paolo Gorini per imbalsamarne il corpo. Una folla immensa e commossa partecipò ai funerali del padre della Patria il 14 febbraio 1872. La casa dove morì (donata dai Rosselli allo Stato) è oggi la Domus Mazziniana, ente nazionale ma simbolo dell’oblio in cui versa la memoria di Mazzini e del Risorgimento. Commissariata dal 1998, chiusa dal 2003 (con il pensionamento dell’unico e solo addetto, Andrea Bocci) al 2008 quando è arrivato Pietro Finelli, conserva libri, vestiti, lettere, la chitarra e le medicine del rivoluzionario genovese, assieme alla foto di Giuditta Sidoli, la baronessa che divenne fervente patriota, rimasta vedova da giovane, da cui ebbe un figlio che morì ad appena tre anni e che amò fino alla fine anche se la rivide l’ultima volta nel 1849, proprio a Firenze. La Domus riaprirà — così è stato annunciato — come nuovo «Museo Nazionale Giuseppe Mazzini» il 5 settembre 2011. Tornando a far conoscere la vita e gli insegnamenti di quello che Jessie White Mario, che rimase sempre sua amica e ne scrisse la biografia, definì più che un Apostolo: «Il Cristo del secolo». 10— Continua

Mauro Bonciani
16 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA

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