il film della settimana
L'amore che resta
Presentato in sordina al festival di Cannes, il film di Gus Van Sant mette in scena l'adolescenza e la morte
Regia: Gus Van Sant; Interpreti: Hanry Hopper, Mia Wasikowska, Ryô Kase; Sceneggiatura: Jason Lew; Fotografia: Harris Savides; Musica: Danny Elfman; Montaggio: Elliot Graham; Scenografia: Anne Ross; Costumi: Danny Glicker; Produzione: Image Entertainment, 360 Pictures; Distribuzione: Warner Bros. USA, 2011, 95'
In Toscana è in queste sale: Firenze: Colonna; Livorno: Quattro Mori; Pisa: Lanteri; Sesto Fiorentino (FI): Grotta.
Presentato in sordina al Festival di Cannes, «L'amore che resta» di Gus Van Sant mette in scena l'adolescenza, soggetto molto caro al regista americano: la giovane Annabel Cotton è animata da un eccezionale amore per la vita e la natura, nonostante sia affetta da un cancro che ha drammaticamente segnato il suo destino. Ad un funerale, Annabel conosce Enoch Brae, un coetaneo che dopo la morte dei genitori ha invece perso ogni interesse - a parte frequentare cerimonie funebri - e che come unico amico ha il fantasma di un kamikaze giapponese della Seconda Guerra Mondiale.
Il loro incontro sfocerà in una delicata storia d'amore ed Enoch farà di tutto per rendere gli ultimi giorni di Annabel tanto intensi da esorcizzare la morte e cercare di sconfiggerne l'amaro destino. Ciò che salta subito agli occhi guardando L'amore che resta, è una bella sterzata inferta da Van Sant al suo stile: rispetto ai suoi film più celebri (da Elephant a Last Days a Paranoid Park) tutto diventa più intimo e sentimentale. Nel raccontare le vite di due ragazzi diversamente provati dall'esperienza della morte, ma comunque decisi a donarsi l'uno all'altro, il regista americano abbandona l'indagine antropologica per aprirsi a una leggerezza dolente, ma appagante, che tanto fa pensare al cinema di Truffaut (c'è un'intera sequenza montata come un omaggio esplicito al maestro francese). L'amore che resta si sviluppa così nella forma di un ambiguo melodramma, in cui la dialettica tra l'ineluttabilità della morte e il desiderio di vita di questi due splendidi e teneri ragazzi da' forma a un continuum sentimentale che è intriso al contempo di toni drammatici e di sequenze quasi esilaranti (come quella in cui i due “mettono in scena” il possibile momento della morte di Annabel, come se fosse la scena di un film).
Se mancano le scene madri (scelta azzeccatissima) è proprio perché tutto è lasciato al potere avvolgente delle immagini: simboliche quanto basta, ammantate in una fotografia dai colori saturi e “riempite” letteralmente da due attori dai volti e dalle movenze sognanti. Se il nichilismo disperato a cui Van Sant ci aveva abituato con le sue fredde analisi sul marciume americano trova in questo film un'interruzione, non è per assolvere il mondo, no. Ma per dimostrare che forse l'unico modo di esorcizzare la morte resta pur sempre quello di abbracciare la vita in ogni istante.
Marco Luceri
10 ottobre 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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