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IL CONCERTO

Mariposa, cantautori punk

La band è da dieci anni esatti ai massimi livelli del rock indipendente italiano e sarà in scena venerdì al Viper. E adora la giornalista del Tg3 regionale Betty Barsantini, tanto da scrivere una canzone col suo nome

Il mondo della musica è un grande armadio, infiniti cassetti. Pieni, a volte stracolmi, quelli ad altezza uomo, di comoda fruizione. Trascurati invece quelli un po’ più nascosti, quindi difficili, meno accessibili: via via che i generi “figliano”, si formano nuovi cassetti, stili, idee. E i cassetti più “cool” o commerciali si riempiono rapidamente, mentre quelli che necessitano di uno sforzo di discernimento maggiore, dell’uso critico del pensiero unito alle passioni, restano in disparte. Nell’impossibilità di definire i Mariposa – surreale e folle band di sette elementi in bilico tra il rock e la canzone d’autore, la psichedelia e il teatro, il punk e la dimensione etnica, da dieci anni esatti ai massimi livelli del rock indipendente italiano e di scena venerdì al Viper Theatre di Firenze, ore 21.30, per il secondo capitolo di Lezioni d’italiano, in coppia con i Virginiana Miller – nell’incapacità di trovargli una collocazione, un “cassetto”, chiediamo aiuto al suo leader e front-man storico Alessandro Fiori.

Aretino, classe 1976, Fiori è pazzo, si sa. E se lo dice da solo. Basta vederlo agitarsi sul palco. Si toglie le scarpe e cammina con i talloni sulle tastiere. Spesso si spoglia cantando. Stupisce, spiazza, inventa. E incanta soprattutto. È un “incantatore”, non di serpenti, ma di emozioni. L’ultimo album dei Mariposa si intitola “Semmai Semiplay”. E il suo autore lo definisce così: «È l’album fratello del precedente “Mariposa”, in perfetta continuità con quello che è stato il nostro lavoro di maggiore discontinuità rispetto al passato perché più pop-rock, meno bizzarro e “zappiano” dei precedenti, di più facile lettura insomma. Rispetto a “Mariposa”, “Semmai Semiplay” è forse più incentrato sulla parte ritmica, più alla “Talking Heads”, quindi ancora più rock».

Fiori, voi sette Mariposa siete un coacervo di mille realtà differenti. Come potreste descrivervi a chi non vi conosce?
«Non abbiamo un genere preciso. Siamo sette elementi e quindi sette menti, e ognuno porta il suo background. Io ho portato la vena cantautorale ma venata di punk. Ultimamente però ci siamo un po’ aggiornati, siamo più curiosi, guardiamo più al presente, forse anche grazie al fatto di aver fondato una nostra etichetta».
La fama di band “folle” vi si addice?
«Non ho niente contro la follia ma non mi piace quando si usa quel termine in riferimento a certi miei testi presi con un sorriso alla “vabbé è pazzo, che ci vuoi fare”. Forse siamo così poco catalogabili che occorrerebbe solo un po’ più di pazienza del normale, nell’ascolto. Detto questo, personalmente credo di essere folle davvero».
“Mariposa” in spagnolo significa “farfalla”. Perché avete scelto questo nome?
«È colpa di Herman Hesse, quando ho scelto il nome della band stavo leggendo una sua raccolta sulle farfalle».
Mezza Italia è rappresentata tra i sette componenti del gruppo, ogni membro proviene da una realtà diversa…
«È stata una bella sfida topografica formare questa band. Il batterista è di Messina, il chitarrista di Verona, poi ci sono toscani ed emiliani. Abbiamo tenuto unita l’Italia nonostante le difficoltà di logistica, pur mantenendo sempre base a Bologna. Ci siamo dovuti rodare piano piano. E ce la siamo cavata».
La vostra musica è di indubbia qualità e forza innovativa. Eppure in dieci anni siete rimasti una realtà di nicchia. Vi sentite incompresi?
«Mah… credo che ci vogliano gruppi come i Mariposa. C’è bisogno di qualcuno che crea cassetti nuovi, buone anime pie che invece di inseguire il successo sgomitando, si mettono a costruire piano piano il loro spazio. Se tutti andassimo a fare la stessa musica, a occupare gli stessi cassetti, sarebbero tutti saturi ormai. E noi speriamo che il tempo ci dia ragione. Certo che se poi la gente preferisce andare a buttarsi sempre nei cassetti più pieni, sono anche fatti loro. Accade nella musica come accade a livello politico: il fatto che Berlusconi, nonostante tutto, rimanga nei sondaggi sempre mai sotto il 34 per cento, è significativo, no? Mi sembra normale che se uno si mette a qualcosa di un po’ più trasversale faccia fatica a essere seguito in una realtà così. Per fortuna però, col tempo e con il lavoro, il nostro bacino di appassionati si è sempre di più allargato».
Tre anni fa insieme a Marco Parente avete messo su il duo “Betti Barsantini”, nome di una nota giornalista del Tg3 toscano. Perché?
«Sono innamorato da sempre di Betty Barsantini. E avevo scritto una canzone usando il suo nome. Poi, insieme a Marco, quando entrambi vivevamo a Firenze, abbiamo pensato di mettere in piedi un progetto insieme e abbiamo scelto quel nome per il duo. Partimmo proprio da quel mio pezzo, “Betti Barsantini”, e giocammo sulla nostra alchimia che definirei “punk professionale”, perché io sono quello punk e Parente è professionale. E secondo me anche la Betti è un personaggio così, punk e professionale allo stesso tempo, oltre a essere un’icona dal nome molto pop come Brigitte Bardot. Un giorno lei ci convocò, e noi temevamo addirittura che volesse querelarci. Invece era contenta, ci invitò a un vernissage in cui presentava dei suoi abiti molto bizzarri. Io e Marco ci siamo anche messi la cravatta per l’occasioen e lei ci regalò una camicia a testa. Il progetto si è fermato ma sappiate che prima o poi qualche altra data come “I Betti Barsantini” la rifacciamo”>

Edoardo Semmola
07 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA

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