l'intervista
Van de Sfroos e le canzoni nel baule
Le tracce del disco che il cantautore ha portato sul palco del Saschall di Firenze stasera, meritano attenzione
«Yanez», avvertenze per l'uso: cercare la traduzione dei testi. Non perché i 15 brani in laghée del nuovo album di Davide Bernasconi – leggi Van de Sfroos - non possano essere ascoltati come quelli stranieri di cui non sempre si conosce il significato, ma solo perché sarebbe un peccato. Le tracce del disco (etichetta Pdt, distribuito da Universal), che il cantautore ha portato sul palco del Saschall di Firenze giovedì 7 aprile, meritano attenzione. Sono foto ritrovate in un baule dalle quali si toglie la polvere per scoprire meglio i personaggi ritratti, che sanno di ricordi (“La machina del ziu Toni”) e finiscono nella poesia (“Dona Lüseerta”).
«Questo disco rispetto agli altri parla molto di me – racconta l'artista che, in scena dal 1985, ha pubblicato il primo lavoro solista nel 1999 – Questa volta ci sono io: le cose strane, le mie elucubrazioni, le mie nevrosi. Insomma,the dark side of Davide». Quel lato oscuro che, spiega, aveva bisogno del momento giusto per uscire. Così come serviva un momento adeguato per la partecipazione a Sanremo, al quale si è presentato con il brano che dà il nome al disco. Un'esperienza della quale sta raccogliendo i frutti: «E' stata una vetrina importante, e sono contento che non sia passato un messaggio per un altro, tipo che sono un prestigiatore anziché un cantante! Gli italiani sono fantasiosi e curiosi e anche il tour sta ricevendo una buona accoglienza».
«Era il momento giusto per esserci – continua parlando del Festival 2011 – per Morandi, che è un collega e non aveva intenzione di fare quelle cose lunghe che non finiscono più, per il cast di amici (Vecchioni, Pezzali, LaCrus) e anche per la coincidenza dei 150 anni dell'Unità d'Italia». Occasione che divide la popolazione in due: chi appende il tricolore ovunque, e chi invece pensa non ci sia nulla di cui gioire. «Il problema sta proprio nel definirli festeggiamenti; io dico che si deve “commemorare”, verbo che ci ricorda che siamo una terra unica, nonostante le tempeste di pietra – per non usare un'altra parola : unica nelle sue differenze, umori e costumi. Ovvio che se mi metto a pensare alla malasanità, ai governi e via dicendo, la voglia passa, ma c'è sempre qualcosa che non va, in tutto. Per intenderci: se domani è il mio compleanno, io posso o non posso celebrarlo, ma dopodomani avrò sempre un anno in più».
Concreto Van De Sfroos, come nella valutazione della sua scelta, quella di comporre in dialetto comasco: «Nella mia storia ha sempre giocato a favore. Dicendo questo mi riferisco al pubblico e non certo a strategie di altro tipo: è sempre stato un acceleratore, più che un freno a mano. La gente lo percepisce come un qualcosa di esotico e se avvertono il sound genuino e lo vogliono, fanno propria una canzone comunque. Dopo tutto quando è arrivato Bregovic mica ci siamo posti il problema! Che poi lo stesso discorso vale per i Metallica o gli U2: non è mica vero che conosciamo tutti i testi! E' una questione che ha a che fare anche la credibilità». Prima di trovare la sua identità che abbraccia cantautorato, folk e world music, Van De Sfroos praticava il punk: che ne resta? «Una sorta di spavalderia un po' strana... essere punk – oltre che ascoltarlo - significa stare in bilico tra la filosofia e l'essere vagamente rincoglioniti». «Lo vedo anche in me, quando mi guardo riflesso da qualche parte, o in video, con la chitarra piena di adesivi. Ho quasi 46 anni, tre figli, e sono ancora lì pronto ad andare in giro con la valigia verde con qualche vestito dentro. Ribadisco: è un confine sottile tra l'illuminarsi e l'essere dei rimbambiti».
Diletta Parlangeli
07 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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