il film della settimana

Sister

Il film è davvero una grande, commovente, metaforica parabola sulla società contemporanea, a partire da quella frattura tra chi sta in basso e chi sta in alto

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Sister

Il film è davvero una grande, commovente, metaforica parabola sulla società contemporanea, a partire da quella frattura tra chi sta in basso e chi sta in alto

Regia: Ursula Meier; Interpreti: Léa Seydoux, Kacey Mottet Klein, Martin Compston; Sceneggiatura: Ursula Meier, Gilles Tauraud; Fotografia: Agnès Godard; Musiche: John Parish; Montaggio: Nelly Quettier; Scenografia: Ivan Niclass; Costumi: Anna Van Brée; Produzione: Archipel 35, Vega Films, RT Suisse, Bande À Part Films; Distribuzione: Teodora. Francia/Svizzera, 2011, 97'.

In Toscana è in queste sale: Firenze: Portico.

Vecchi e nuovi conflitti appesi ai cavi d’acciaio di una funivia, sospesa tra il paradiso e l’inferno. Ursula Meier non si smentisce: resta una regista di confine e con il suo nuovo film, «Sister», premiato con l’Orso d’Argento all’ultimo Festival di Berlino, resta lì, perché è lì che va trovata la chiave per capire come va il mondo, in questi anni depressi, in questa sconquassata Europa d’inizio millennio. Il film è davvero una grande, commovente, metaforica parabola sulla società contemporanea, a partire da quella frattura (insanabile) tra chi sta in basso e chi sta in alto (in mezzo ormai c’è solo il vuoto). Non si tratta solo di una distanza fisica e cromatica, tra un fondovalle grigio, sporco, misero, triste e gli scintillanti, ricchi, ameni campi da sci innevati di bianco e neppure la facile (?) metafora tra ricchi e poveri, ma di una vera e propria antropologia dell’anima, che è poi quella che traspare dai due protagonisti della vicenda, il piccolo Simon e la sorella più grande, Louise (che sembrano usciti da un film dei Dardenne, non fosse altro per l’estremo realismo – molta macchina a mano – con cui vengono raccontate le loro vite).

Il ragazzino varca ogni giorno questa soglia di confine, per andare a rubare ai ricchi ogni sorta di oggetto: come un oscuro folletto, si nasconde dietro un passamontagna e racimola ogni cosa, che poi nasconde furtivamente, come se fosse un animale braccato, in qualche anfratto. Con i soldi che fa rivendendo parte della refurtiva si prende cura di una sorella (una straordinaria Léa Seydoux, giovane attrice emergente del cinema francese) che cerca il proprio posto nel mondo passando svogliatamente da un lavoro a un altro, fugace ombra che attraversa un paesaggio umano e sentimentale tra i più precari visti al cinema negli ultimi anni (la regista evita il pietismo, inserendo una serie di personaggi secondari utili a far saltare il facile schematismo buoni/cattivi). E’ così che loro vite scorrono verso il vuoto, solo che a metà del film arriva il colpo di scena (impossibile raccontarlo), che getta tutta la vicenda in una nuova luce e chiarisce quei passaggi misteriosi che la Meier ha disseminato in tutta la prima parte della vicenda. E’ qui che si irrobustisce lo spessore del film, trasformando una vicenda esemplare, ma a suo modo individuale, in un discorso sul dramma generazionale, anzi epocale, in cui stiamo scivolando, bloccati nell’incapacità di reagire. E’ così che il film svela tutta la potenza del suo impianto metaforico, in quel ribaltamento dei sogni che ci costringe ad aprire gli occhi sulla nostra vita e su quella realtà che troppo spesso abbiamo fatto finta di non vedere.

Marco Luceri11 maggio 2012© RIPRODUZIONE RISERVATA

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