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il film della settimana

Shame

Brandon, un elegante e fascinoso single newyorkese, con un buon lavoro e con un bell'appartamento ha un problema: è letteralmente “malato di sesso”

Regia: Steve McQueen; Interpreti: Michael Fassbender, Carey Mulligan, James Badge Dale, Nicole Beharie; Sceneggiatura: Steve McQueen, Abi Morgan; Fotografia: Sean Bobbit; Musica: Harry Escott; Montaggio: Joe Walker; Scenografia: Judy Becker; Costumi: David C. Robinson; Produzione: See-Saw Films, Film4; Distribuzione: Bim. Gran Bretagna, 2011, 99'

In Toscana è in queste sale: Firenze: Flora, Odeon; Arezzo: Eden; Campi Bisenzio: Uci; Livorno: Grande; Pisa: Odeon; Prato: Eden.

Presentato in Concorso all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, «Shame» è il secondo film del videoartista britannico Steve McQueen, che dopo il folgorante esordio di «Hunger» (purtroppo mai distribuito in Italia), torna al cinema con una storia tragica e intimista, riaffidando il ruolo del protagonista al suo attore preferito, Michael Fassbender. L'idea che è alla base della sceneggiatura è quella di raccontare la storia di un uomo letteralmente imprigionato nelle proprie ossessioni; nella fattispecie si tratta di Brandon, un elegante e fascinoso single newyorkese, con un buon lavoro e con un bell'appartamento nei quartieri bene della città. Il nostro eroe ha però un serio problema: è letteralmente “malato di sesso”: consuma uno dopo l'altro rapporti occasionali sia con avvenenti donne del suo milieu sociale che con prostitute, passa moltissimo tempo davanti allo schermo del suo pc a guardare immagini pornografiche e si dedica ben volentieri alla masturbazione.

Un bel giorno, però, a sconvolgere la sua quotidiana routine, arriva la sorella (una bravissima Carey Mulligan), che McQueen tratteggia seguendo in tutto e per tutto lo stereotipo della cantate bella e maledetta. Il film è dunque tutto giocato sul dramma personale di un uomo che dietro un aspetto rispettabile e contenuto ribolle di rabbia ferina e terribili sensi di colpa, eppure il film non riesce mai completamente a decollare. E non perché vanno a vuoto certi risvolti narrativi (felice l'intuizione di far naufragare una possibile storia d'amore), ma perché – paradossalmente – manca all'intera opera quel carattere sanguigno, pauroso e corporale che vorrebbe avere. Tutto resta abbozzato dietro un'eleganza formale fredda e distaccata, che se è utile a fare un preciso ritratto d'ambiente, dall'altra non permette ai personaggi di tirar fuori in maniera adeguata il marcio che hanno dentro.

Alla fine, addirittura, il dramma personale dei due fratelli trascolora nella sociologia più spicciola (davvero infelice la battuta che pronuncia Sissy prima di tentare il suicidio, «La verità è che non siamo persone cattive, ma veniamo da un posto brutto») e in una prevedibile escalation al ribasso. Peccato, perché McQueen sa usare la cinepresa con disinvoltura: tenta spesso di restituirci a pieno lo spazio-tempo delle azioni (coraggiosi i piani-sequenza usati in più dialoghi), usa un montaggio attentissimo a creare un ritmo anche quando è difficile ottenerlo (le sequenze degli sguardi in metropolitana, ad esempio), sa dare alle immagini più centri narrativi, avvalendosi della profondità di campo. Tuttavia, soprattutto rispetto ad «Hunger», si ha l'impressione che stavolta il regista britannico abbia cercato fin troppo la “bella immagine”, frutto di un estetismo pensato a tavolino, che forse può andar bene in altre arti, ma nel cinema è sempre foriero di tristi equivoci.

Marco Luceri
13 gennaio 2012© RIPRODUZIONE RISERVATA

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