l'intervista

«Io, Sergio e i suoni del cinema»

A colloquio col grande compositore Ennio Morricone, il 3 novembre in concerto al Mandela Forum

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«Io, Sergio e i suoni del cinema»

A colloquio col grande compositore Ennio Morricone, il 3 novembre in concerto al Mandela Forum

Difficile immaginare che il 3 novembre, uno solo dei posti del Mandela Forum di Firenze possa rimanere vuoto. Grande appuntamento con un sogno. Anzi, con un numero variegato e «personalissimo» di sogni. A ciascuno il suo. Il «mago» dispensatore si chiama Ennio Morricone le cui opere hanno concesso (e continuano a farlo) a ciascuno di poter sbobinare la propria memoria seguendo la trama di un film.

Firenze l’attende con giustificata ansia, Morricone.
«E io non vedo l’ora di poter tornare a esibirmi in una delle rare città al mondo che amo in maniera profonda. I miei concerti qui sono sempre andati oltre quello che si definisce il successo di uno spettacolo. Il coinvolgimento emotivo e sempre stato totale e reciproco. Rammento i tanti ‘‘finali di serata’’ caratterizzati da altrettante standing ovation per me e per i miei musicisti. Il massimo che possa pretendere un artista. Uno scambio di emozioni tra me e il pubblico in sala».
Con lei e con la sua musica, la possibilità è quella di viaggiare nel tempo o di perdersi, addirittura, in qualche angolo segreto della memoria. A lei capita mai di rivivere il suo passato più lontano dove dovrebbe trovarsi una tromba?
«La tromba? Già, è vero. Il mio punto di partenza. Da ragazzino. Uno strumento per il quale non è che provassi una passione così intensa come si potrebbe immaginare. Si trattava, in realtà, del segno distintivo della mia famiglia. Vede, mio padre era un trombettista eccezionale. Grazie a lui e al suo strumento si viveva e anche bene. Sicché, quasi per spinta naturale, finii al Santa Cecilia con una tromba in mano e uno spartito di fronte. Ma subito mi resi conto che i confini del semplice musicista sarebbero risultati troppo stretti per me. Dovevo allargare il campo di conoscenza e così mi diedi da fare».
In che modo?
«Nell’unico possibile. Facendo sostenere lo studio musicale da tutte quelle materie, apparentemente estranee, indispensabili per una conoscenza profonda e in senso ampio. Dalla letteratura al latino, dal greco antico all’arte. Ebbi la fortuna di incontrare autentici maestri, come Pedrocchi o Muscetta, per questo tipi di istruzione indispensabile a quella che io amo definire armonia complementare. Un’operazione che mi permise di diventare compositore».
Settanta milioni di dischi venduti. Una cifra da capogiro.
«Così tanti? Ero rimasto a quaranta….Vabbé, l’ultima notizia sul conteggio si riferiva a qualche anno fa. Vuole dire che va bene».
Soltanto bene?
«Se intende la questione sotto il profilo economico, le assicuro che la cosa mi fa piacere entro i ragionevoli limiti dell’umana considerazione. La gioia è semmai intensa dal punto di vista del mio ego artistico la cui soddisfazione è data dall’affetto e, mi auguro, dalla stima, che la gente prova nei miei confronti e per il mio lavoro».
Saltabeccando tra i paletti di una vita incredibile è possibile trovare una chicca davvero curiosa. Lei, Morricone, fu il più lesto ad abbandonare il carrozzone Rai.
«Ero così giovane. È vero. Quell’impiego durò solo un giorno. Dalla mattina di un lunedì, quando mi presentai al lavoro e mi dissero che il mio compito sarebbe stato quello di andare in archivio e cercare le basi sonore per una trasmissione che si chiamava ‘‘Il Musichiere’’ condotta da Mario Riva, alla sera nel momento in cui dissi al maestro Pizzini che io ero un compositore e che non ero venuto in Rai per fare l’archivista. Lui mi mostrò una lettera. Era firmata dal dottor Guala, allora direttore della Rete, nella quale si diceva che nessun assistente musicale avrebbe potuto fare carriera all’interno dell’azienda oltre ai compiti specifici stabiliti dal contratto. Salutai e me ne andai inseguito dalla voce del maestro che mi diceva: ma come, qui hai un pezzo di pane garantito per tutta vita! Non che disprezzassi il pane, per carità, ma nella mia mente per me avevo costruito altro. Ora come esterno i miei rapporti con l’azienda sono ottimi e ben testimoniati dalla collaborazione con le orchestre di Torino e di Milano, per esempio».
Maestro, arriviamo al cuore. A Sergio Leone...
«Era stato il mio compagno in terza elementare. Uno come tanti. Poi, un giorno che era passata una vita, suonano alla porta di casa mia. Era lui, Sergio. Lo riconosco. Si era scordato del nostro anno di scuola insieme. Era venuto dal ‘‘maestro Morricone’’ per le musiche del film Per un pugno di dollari. Andammo a cena insieme, a Trastevere, da Checco. Un altro compagno di classe che, all’ingresso del suo locale, aveva messo uno fotografia della ‘‘terza A’’. Un momento di grande commozione. Da quel giorno non ci lasciammo più».
Dicono: i film di Leone e anche tanti altri avrebbero avuto un successo minore senza le musiche di Morricone.
«Una sciocchezza. La musica non deve mai superare la potenza della scena. Che se è bella può soltanto essere migliorata dal suono. Mi hanno chiesto, talvolta, di salvare con una colonna sonora eccellente un film mediocre. Non ci sono mai riuscito perché è impossibile».
Come nasce una sua opera da film?
«Un lavoro durissimo, a tappe. Prima il regista mi racconta la storia. Poi leggo la sceneggiatura. Mi guardo i giornalieri. Partecipo al montaggio. Infine, nella post produzione, creo i brani della colonna sonora. Per i lavori di Sergio, sette film, erano sufficienti il suo racconto e la prima lettura».
Ora lei sta lavorando con e per Tornatore.
«Esatto, proprio in questi giorni stiamo completando il suo ultimo lavoro La migliore offerta. Un film completamente diverso dai suoi. Sarà un’autentica e positiva sorpresa. Mi auguro sia così anche per le mie musiche».
Si aspettava che Clint Eastwood diventasse un autore e regista così bravo?
«Francamente no. Ricordo la battuta di Sergio: Clint ha due espressioni, una con il sigaro in bocca e una senza. Lo diceva con ironica simpatia e affetto, naturalmente. In seguito Clint mi chiese per due volte di lavorare per lui e io rifiutai. Mi pareva di tradire Sergio. Poi, alla consegna degli Oscar a Los Angeles, ci siamo abbracciati e baciati. Ho capito. Un poco del mio amico fraterno Leone è andato a vivere in lui».
Esiste un decalogo del buon compositore?
«Passione e talento come base indispensabile. Ma, a sostegno, una cocciuta volontà negli studi in senso ampio. Infine l’umiltà di saper partire dal basso, addirittura dal varietà, e dalla dedizione agli arrangiamenti».

Marco Bernardini26 ottobre 2012© RIPRODUZIONE RISERVATA

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