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il film della settimana

Cesare deve morire

Hanno trionfato al Festival di Berlino, vincendo l'Orso d'Oro. Ora Paolo e Vittorio Taviani affrontano la sfida del grande pubblico

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; Interpreti: Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca; Sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; Fotografia: Simone Zampagni; Musiche: Carmelo Travia, Giuliano Taviani; Montaggio: Roberto Perpignani; Produzione: Kaos Cinematografica, RaiCinema; Distribuzione: Sacher. Italia, 2012, 76'

In Toscana è in queste sale: Firenze: Odeon; Livorno: Grande; Pistoia: Roma; Prato: Eden; Sesto Fiorentino: Grotta.

Hanno trionfato al Festival di Berlino, vincendo l'Orso d'Oro. Ora Paolo e Vittorio Taviani affrontano la sfida del grande pubblico, con Cesare deve morire, che ha riportato i due fratelli di San Miniato ai fasti di un tempo, ovvero a un cinema diretto, viscerale, epico, che non ha paura di confrontarsi con il reale. Si sente da ormai troppo tempo in Italia (a parte qualche rara, lodevole, eccezione) l'assenza di un cinema che sappia affrontare le realtà più difficili e marginali del Paese (e quante ce ne sarebbero!) con uno sguardo “etico”, capace di “mostrare”, prima che di “dimostrare”. I Taviani, in sostanza, hanno fatto proprio questo: hanno ridato al cinema la possibilità di elevare la realtà quotidiana a poesia della vita, seguendo – a loro modo - quella lezione rosselliniana che ha fatto grande il loro cinema.

Cesare deve morire, girato nel carcere romano di Rebibbia e interamente interpretato da detenuti, racconta le prove e la messinscena di un classico del teatro shakespeariano, il Giulio Cesare, rappresentando una vera e propria mise en abyme dell'eterno dissidio tra l'autorità del potere politico e la libertà individuale. La chiave del film sta tutta nella semplicità, nel rispetto e nella discrezione con cui i Taviani raccontano, sotto forma di diario, le giornate straordinarie di questi uomini, eliminando ogni banale metafora e restituendo al teatro e al cinema tutta la consistenza della loro forza catartica. Quasi interamente ammantato in un durissimo bianco e nero, Cesare deve morire, grazie al suo stile “fisico”, diretto ed essenziale, è anche un film sul ruolo dell'attore, sulla fascinazione di interpretare – anche solo per poche ore – un individuo diverso da sé. Tutti gli attori/detenuti si muovono costantemente tra un registro di immedesimazione e uno di imitazione del proprio personaggio, sorretti in questo da un uso espressivo dei dialetti che donano al testo shakespeariano una nuova, inedita forza tragica.

E così, ogni volta che la realtà irrompe nella finzione o viceversa, il tono del film si fa più sanguigno, viscerale, autentico, perché è proprio questo ciò che accade quando l'arte irrompe prepotentemente nella vita. I primi a rendersene conto sono stati proprio loro, i protagonisti di questa vicenda. Se all'inizio del film ogni detenuto si presenta per quello che è (ogni volto e ogni nome sono associati alle rispettive pene), alla fine dello spettacolo ognuno di loro torna in cella: sono sempre gli stessi, ma d'ora in poi saranno per sempre diversi. «Da quando ho scoperto l'arte questa cella è diventata una prigione» sussurra nel finale uno di loro. E si sente soffiare, in queste parole, il respiro dei secoli.

Marco Luceri
03 marzo 2012(ultima modifica: 04 marzo 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

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