il film della settimana
Un castello in Italia
La regista decide di mettersi a nudo con crudeltà e umorismo, costruendo un film che alterna situazioni paradossali e dai risvolti comici a passaggi di dolore
Regia: Valeria Bruni Tedeschi; Interpreti: Valeria Bruni Tedeschi, Louis Garrel, Filippo Timi, Marisa Borini; Sceneggiatura: Valeria Bruni Tedeschi, Agnès de Sacy, Noémie Lvovsky; Fotografia: Jeanne Lapoirie; Montaggio: Laure Gardette, Francesca Calvelli; Costumi: Caroline de Vivaise; Produzione: SBS Productions; Distribuzione: Teodora. Francia, 2013, 104'.
In Toscana è in queste sale:Firenze: Portico; Pisa: Lanteri.
È un film che non ti aspetti «Un castello in Italia», terza prova da regista di Valeria Bruni Tedeschi, che si è ormai affrancata dal ruolo di semplice attrice (per Spielberg, Moretti, Chéreau, Ozon, Calopresti, ecc.) per avventurarsi in un cinema fatto «da sé» nel vero e proprio senso della parola. Perché se i precedenti «È più facile che un cammello...» e «Attrici» andavano a pescare nel vissuto della regista, questo ultimo film spazza via ogni dubbio su quel rapporto realtà/finzione che sembra contraddistinguere il lavoro di Bruni Tedeschi.
La vicenda raccontata è infatti quella di una ricca famiglia piemontese alle prese con la vendita del castello di proprietà da generazioni, con Louise e Ludovic, due figli viziati, mai veramente cresciuti e legati da un rapporto morboso, e una madre pianista che ce la mette tutta per colmare i vuoti esistenziali in cui cadono i figli. Ma è Louise il vero motore della vicenda, prima messa in crisi negli affetti dalla malattia terminale del fratello, poi travolta dai sentimenti dopo l'incontro con il bello e tenebroso attore Nathan, che la spingerà verso una maternità tanto attesa quanto sofferta. Basterebbe dare ad ogni personaggio il volto dell'attore che lo interpreta per capire come la storia raccontata sia in gran parte quella della stessa regista: è lei che interpreta Louise, Nathan è il suo ex Louis Garrel, la madre è quella vera, Marisa Borini, a essere fuori dal clan sono solo Filippo Timi (Ludovic) e Pippo Del Bono, nei panni di un sacerdote improvvisato e poco ortodosso.
A prima vista potrebbe sembrare uno stucchevole esercizio di autobiografismo, invece la regista decide di mettersi a nudo con crudeltà e umorismo, costruendo un film che alterna situazioni paradossali e dai risvolti comici (divertentissima, nella sua umana disperazione, la scena del pellegrinaggio a Napoli) a passaggi di dolore intenso, quasi straziante (la separazione definitiva dal fratello, in ospedale) con un ritmo scoppiettante da calibratissima tragicommedia, in cui i luoghi, a partire proprio dal castello di Castagneto, diventano felice metafora di un mondo che scompare, spazzato via dal crudele tempo moderno. La nobiltà (quando c'è) si vede anche da questo.