il film della settimana

Il grande Gatsby

Il testo sacro della letteratura americana consegnato sotto una nuova luce, quella di una rutilante contemporaneità che tutto divora

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Il grande Gatsby

Il testo sacro della letteratura americana consegnato sotto una nuova luce, quella di una rutilante contemporaneità che tutto divora

Regia: Baz Lurhmann; Interpreti: Leonardo Di Caprio, Tobey Maguire, Carey Mulligan; Sceneggiatura: Baz Luhrmann, Craig Pearce; Fotografia: Simon Duggan; Montaggio: Matt Villa; Scenografia: Catherine Martin; Costumi: Catherine Martin; Produzione: Bazmark Films, Red Wagon Entertainment; Distribuzione: Warner Bros. Australia/USA, 2013, 105'.

In Toscana è in queste sale: Firenze: Adriano, Fulgor, Portico, Principe, Uci; Campi Bisenzio: Uci; Empoli: La Perla; Scandicci: Cabiria; Sesto Fiorentino: Grotta; Livorno: Quattro Mori, The Space; Massa: Splendor; Montecatini: Imperiale; Montevarchi: Cine8; Pisa: Isola Verde, Nuovo; Pistoia: Lux; Poggibonsi: Politeama; Pontedera: Cineplex; Prato: Eden, Omnia Center; Santa Croce sull’Arno: Lami; Siena: Metropolitan.

CANNES – Quando Hollywood decide di sfidare la crisi rispolvera di solito i classici. In apertura di un Festival di Cannes partito un po’ sottotono (meno gente e meno movimento quest’anno sulla Croisette) ha così calato, come da copione, i pezzi da novanta. E così «Il grande Gatsby» di Baz Lurhmann (quello di «Moulin Rouge», per intenderci) ripropone un testo sacro della letteratura americana, firmato dal grande Scott Fitzgerald, e ce lo riconsegna sotto una nuova luce, quella di una rutilante contemporaneità che tutto divora, tutto centrifuga, tutto riplasma, annullando i confini tra passato, presente e futuro. Una specie di film-saggio, insomma, sicuramente frutto di un’abilissima strategia commerciale (siamo pur sempre a Hollywood), che sarebbe tuttavia sbagliato liquidare solo come tale. Il più evidente merito del film (qui a Cannes la criticona ha storto parecchio il naso) è dunque quello di non aver fatto un’operazione-nostalgia, né nei confronti del «modello» letterario, né verso i precedenti adattamenti per il cinema (i cinéphiles ricorderanno quello con Robert Redford e Mia Farrow, del 1974), ma di aver adattato la magnifica e crepuscolare vicenda di decadenza raccontata da Fitzgerald all’estetica di oggi.

È così che i ruggenti anni Venti non hanno molto della leggendaria Età del Jazz, ma appaiono come un gigantesco contenitore fuori dalla Storia, in cui convergono, senza soluzione di continuità, suggestioni, visioni, ritmi e immaginari di un’epoca – un eterno presente in chiave vintage – indefinibile. È il principale motivo per cui il film fa dell’eccesso, in ogni senso, la sua stessa ragione «di vita»: spettacolare oltre ogni misura, barocco, kitsch, velocissimo, debordante, questo Grande Gatsby trova nella continua e forzata sottolineatura di ogni sua componente stilistica (regia, recitazione, montaggio, musiche) la dimostrazione di come e quanto la Hollywood contemporanea sia capace, sotto nuove forme, di dare linfa vitale alla propria mitologia. Il fascino di questo film-baraonda risiede tutto in questo tentativo, e cioè quello di rendere ancora narrativamente stupefacente la propria funzione nel mondo, quella dell’entertainment, possibilmente sulla cara vecchia (nuova?) via dei lustrini e delle star. E allora quale miglior modello se non quello di Fitzgerald, che primo tra i grandi scrittori americani, aveva raccontato i cuori di tenebra che popolavano Hollywood e dintorni (insuperato resta in questo senso il suo romanzo incompiuto, «Gli ultimi fuochi»)? Perché dietro ogni luccicante lustrino si nasconde sempre il male, dietro le immagini l’inganno, dietro la superficie il niente.

(modifica il 21 maggio 2013) © RIPRODUZIONE RISERVATA
Marco Luceri
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