l'intervista

Chador d'Occidente

A colloquio col grande fotografo del mondo arabo in versione pop. Che il 5 porta a Firenze la mostra «Vogue Arabe»

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Chador d'Occidente

A colloquio col grande fotografo del mondo arabo in versione pop. Che il 5 porta a Firenze la mostra «Vogue Arabe»

La sua è una di quelle storie che non finiresti mai di raccontare. Sembra presa da uno di quei romanzi che ti parlano di vite sospese tra continenti, di partenze, lontananze, orizzonti verso cui andare. Lui è Hassan Hajjaj, nato cinquantadue anni fa vicino alle banchine di un porto marocchino, finito da adolescente a Londra per necessità e ora cittadino di due mondi, Africa ed Europa, che non si è mai stancato di pensare come una cosa sola. La sua professione? Difficile dirlo: fotografo, artista visivo, fashion designer. Dopo che la sua ultima personale Dakka Marrakech ha fatto il giro di mezzo mondo, per concludersi negli spazi del Victoria&Albert Museum di Londra, le sue fotografie arriveranno a Firenze, per una mostra tutta nuova, VogueArabe, che verrà inaugurata il 5 aprile (ore 18.30) all’Aria Art Gallery (in borgo SS. Apostoli). L’occasione è ghiotta, perché la mostra sarà all’interno del programma della quarta edizione del Middle East Now (all’Odeon e allo Stensen dal 3 all’8 aprile), il festival dedicato al cinema e alle arti visive e performative del Medio Oriente e del Nord Africa.

VogueArabe

«E pensare — racconta Hajjaj — che tutto è nato per caso. Quando ero bambino e mio padre viveva a Londra per mantenere la nostra famiglia, ogni due anni, in giorni particolari, mia madre metteva il vestito buono a me e alle mie sorelle, ci spruzzava addosso del profumo e ci portava dal vecchio fotografo della città, un certo Larache. Lì ci mettevamo in posa, per fare delle fotografie che poi spedivamo a nostro padre, in modo che ci potesse vedere, cresciuti e più belli che mai. È stato lì che per la prima volta ho visto le macchine fotografiche, le luci, e quel mondo che per magia trasformava tutto in immagini». A quattordici anni Hajjaj arrivò a Londra e fu uno shock volare via dal calore berbero del Marocco per finire nel caos frenetico della metropoli inglese: «I primi tempi furono difficili, avevo lasciato la scuola, dell’Inghilterra non conoscevo nulla e non ce la passavamo molto bene. Eppure Londra mi ha offerto quelle opportunità che probabilmente altrove non avrei avuto. Dopo aver fatto di tutto, dal giardiniere al cuoco, ho iniziato a vendere abiti di amici stilisti, prima nei mercati, poi in un piccolo negozio a Covent Garden, che aprii con mia moglie Vanessa. Gli affari cominciarono a girare e accanto alle firme più famose iniziammo a vendere anche capi che imitavano grandi marchi. Li confezionava un amico marocchino».

Erano gli anni Ottanta, un’epoca straordinaria per la moda e la cultura visiva underground londinese. È proprio in quegli anni che Hajjaj cerca di creare qualcosa di veramente suo. A trentacinque anni, con alle spalle una buona esperienza nel campo della moda e nell’organizzazione di show artistici di successo, inizia a puntare l’obbiettivo sulle sue radici ma con lo sguardo disincantato di chi ha fatto dell’imitazione e della contraffazione creativa il punto forte della propria espressività: «L’imitazione — spiega — è da molto tempo la forma più diffusa del linguaggio globale e così rappresentare la cultura da dove vengo attraverso questo filtro permette di mostrare quanto delle persone qualunque fotografate in una città del Marocco non siano poi così diverse da altre immortalate in altri paesi. È un po’ come avere lo spirito di Robin Hood, dando ai poveri quello che si ruba ai ricchi». Ecco allora da dove nasce il mondo figurativo, colorato e pop di Hajjaj (qualcuno l’ha definito, «l’Andy Wharol del mondo arabo»): splendidi volti femminili nascosti dietro un velo Gucci «taroccato», donne che accavallano sensualmente le gambe su alcuni motociclette vintage o ancora agghindate minacciosamente e sedute ai tavolini di un bar all’aperto, Charlie’s Angel in salsa berbera.

«Non so se questa sia ironia o ci sia dentro una provocazione — sostiene, sornione, il fotografo a proposito di questi personaggi e scorci di vita immortalati a Marrakesh — certo è che il glamour, le tendenze globali e i sogni delle ragazze che ne vogliono far parte sono simili in tutto il mondo. Anche per questo le mie fotoe hanno cornici di legno in cui sono inseriti, come in un mosaico, alcuni tra gli oggetti più comuni della nostra vita quotidiana: lattine di Coca-cola, scatole di fiammiferi, contenitori di plastica. Forse è triste ammetterlo, ma i marchi globali oggi comunicano a tutti le stesse cose». In questa sottile vena di malinconia sta forse la chiave per provare a reindirizzare lo sguardo di un artista che è molto più serio di quanto vorrebbe apparire. Non ci sarà da stupirsi se, come dice egli stesso, VogueArabe sarà una rilettura della superficie patinata dell’immaginario consumistico occidentale e di come esso susciti un fascino irresistibile sul mondo arabo.

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