il film della settimana

The Grandmaster

Sarebbe riduttivo scambiarlo per un film sulle arti marziali. Perché è molto di più

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The Grandmaster

Sarebbe riduttivo scambiarlo per un film sulle arti marziali. Perché è molto di più

Regia: Wong Kar Wai; Interpreti: Toni Leung, Zhang Ziyi, Chang Chen; Sceneggiatura: Zou Jingzhi, Wong Kar Wai; Fotografia: Philippe Le Sourd; Musiche: Frankie Chan; Scenografia: William Chang; Costumi: William Chang; Produzione: Jet Tone Production; Distribuzione: Bim. Cina/Hong Kong, 2013, 120'.

In Toscana è in queste sale: Firenze: Flora; Grosseto: Stella; Livorno: Dessé; Pisa: Odeon; Prato: Eden; Siena: Nuovo Pendola.

Sarebbe ingiusto e riduttivo scambiare il nuovo film di Wong Kar Wai, «The Grandmaster» (titolo d'apertura dell'ultima Berlinale) per un film sulle arti marziali. E si cadrebbe nel medesimo errore anche a considerarlo un biopic. Perché è molto di più. Non che di questi generi non vi sia traccia, tutt'altro. Ma non è questo il punto. Certo, la trama vede come protagonisti proprio due campioni del kung fu: lui, Ip Man (leggendario maestro di Bruce Lee), viene dal sud della Cina; lei, Gong Er, dal nord. I loro percorsi si incrociano nel paese natale di Ip Man, Foshan, all'epoca dell'invasione giapponese del 1936.

La Cina è in tumulto e il sud del paese vacilla sull'orlo della divisione con il nord. Il padre di Gong Er, un rinomato gran maestro, viaggia anch'esso verso Foshan, avendo scelto il leggendario bordello The Golden Pavilion - dove si radunano i migliori guerrieri di arti marziali del paese - come luogo per la sua cerimonia di pensionamento. Così, mentre il paese è in preda al caos della guerra e dell'occupazione, i protagonisti vivranno storie d'onore, d'amore e tradimenti sullo sfondo di battaglie, duelli di spade e combattimenti corpo a corpo con acrobazie spettacolari. Il film, naturalmente, è molto di più, perché Wong Kar Wai, da raffinato tessitore di melò, ha ammantanto il mondo delle arti marziali in un velo di nostalgica e lussureggiante grandiosità.

Siamo sempre dalle parti di «In the Mood for Love» e «2046», per intenderci, anche se il respiro epico (alla Sergio Leone, ampiamente citato) stavolta si allarga, diventando pura materia drammaturgica. La dilatazione del tempo (che da storico diventa “cinematografico”) nel segno di ricordi e nostalgie che tornano a cercarci, lo spazio intriso di passato, gli oggetti che – come madeleine proustiane – diventano dettagli che raccontano il tutto, sono gli elementi che il regista hongkonghese orchestra per tessere la sua tela di immagini nostalgiche, per un mondo che in realtà è fuori da ogni tipo di riconoscibile coordinata. Siamo di fronte a una sorta di astratto e totalizzante raduno degli eroi, chiuso nelle atmosfere di un cinema che si da' solo come esperienza 'ideale', che irrimediabilmente non c'è più e che ritorna – sotto mentite spoglie – solo nel ricordo di chi lo sa ancora guadare.

Marco Luceri
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