il film della settimana
Miele
Valeria Golino, al suo primo lungometraggio da regista è stata selezionata per questo film – unica italiana – nella sezione Un Certain Regard al prossimo Festival di Cannes
Regia: Valeria Golino; Interpreti: Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Vinicio Marchioni, Libero De Rienzo, Jaia Forte; Sceneggiatura: Francesca Marciano, Valeria Golino, Valia Santella; Fotografia: Gergely Poharnok; Montaggio: Giogiò Franchini; Scenografia: Paolo Bonfini; Costumi: Maria Rita Barbera; Produzione: Buena Onda, Rai Cinema, Les Films des Tournelles; Distribuzione: Bim. Italia, 2013, 96’.
In Toscana è in queste sale: Firenze: Astra 2, Flora; Empoli: Excelsior; Livorno: Kino Dessé; Lucca: Italia; Pisa: Odeon; Pistoia: Lux; Prato: Omnia Center; Scandicci: Cabiria.
La bella notizia è che Valeria Golino, al suo primo lungometraggio da regista, è stata selezionata – unica italiana – nella sezione Un Certain Regard al prossimo Festival di Cannes. Quella che è una delle pochissime attrici italiane conosciute e apprezzate anche all’estero se la dovrà vedere sulla Croisette con i nomi emergenti (o presunti tali) del cinema internazionale e sarà una bella sfida. In attesa di vederla in questa nuova veste, ci siamo gustati «Miele», tratto dal romanzo «A nome tuo» di Mauro Covacich (Einaudi), storia difficile e a tratti crepuscolare di Irene, una giovane e solitaria trentenne dall’aspetto androgino, che per vivere fa l’angelo della morte. Aiuta cioè i malati terminali che vogliono abbreviare l’agonia e quando è libera nuota in mare aperto o corre in bicicletta in maniera rabbiosa. Ma l’incontro con un settantenne in buona salute che vuole farla finita semplicemente perché stanco di vivere cambierà radicalmente le sue convinzioni.
Recentemente affrontato da due maestri come Haneke («Amour») e Bellocchio («Bella addormentata»), quello dell’eutanasia è un tema difficile, soprattutto per un’esordiente come la Golino, che purtroppo non riesce a sfuggire da uno schematismo drammaturgico di fondo. Che per fortuna non ha nulla a che fare con rigidità di carattere ideologico o morale (la posizione della regista – che è anche sceneggiatrice – si percepisce, ma resta sullo sfondo), ma piuttosto riguarda il personaggio protagonista e la sua fin troppo ricercata «diversità». Certo, la prova di Jasmine Trinca (attrice sensibile e in crescita espressiva) è buona, a tratti davvero convincente, ma finisce per essere soffocata da una figura eccessivamente tipizzata e in fondo poco originale. Dove la Golino dimostra invece di essere una regista già matura è soprattutto nel linguaggio filmico: le sue immagini hanno un impianto formale per nulla banale (si veda l’uso simbolico che spesso viene fatto dello spazio e la frequenza del montaggio frammentato) e più in generale è stata capace di controllare la scomodità del tema senza far sì che la storia si mangiasse l’impianto visivo. Sfida vinta a metà, dunque, in attesa di vedere a Cannes in che maniera verrà accolta e se sarà capace di giocarsela per il premio finale.