IL FILM DELLA SETTIMANA
Zero Dark Thirty
Bigelow tira fuori il fantasma per eccellenza del decennio americano, Bin Laden, e ne mette in scena non tanto la morte, ma soprattutto la sua caccia
Regia: Katherine Bigelow; Interpreti: Jessica Chastain, Jason Clarke, Joel Edgerton; Sceneggiatura: Mark Boal; Fotografia: Greig Fraser; Musiche: Alexander Desplat; Montaggio: Dylan Tichenor; Scenografia: Jeremie Hindle; Costumi: George L. Little; Produzione: Annapurna Pictures; Distribuzione: Universal Pictures. USA, 2012, 157'.
In Toscana è in queste sale: Firenze: Flora, Fulgor, Uci; Campi Bisenzio: Uci; Livorno: Grande; Pisa: Odeon; Prato: Omnia Center.
Si resta davvero sbalorditi di fronte a un film che Katherine Bigelow sembra aver inseguito per tutta la vita. Alla fine si tira quasi un sospiro di sollievo, con la sensazione che il nastro sia stato riavvolto, che tutto sia tornato al posto giusto. Ovviamente non è così, perché basterebbero anche solo le prime scene di «Zero Dark Thirty» per farci risvegliare e buttarci lì, in mezzo alla Storia, in mezzo al Cinema. Lasciateci usare le maiuscole perché è evidente che ci troviamo di fronte a un film di capitale importanza, almeno quanto il coevo «Lincoln» di Spielberg, con l'America e la sua più grande macchina di spettacolo (Hollywood) che sono ritornare a ridare vigore alla propria mitologia.
Se con «Lincoln» è il genere storico-politico a essere ridefinito, con «Zero Dark Thirty» è il war-movie a essere completamente ridisegnato, a partire dalla rielaborazione di quelle ossessioni che ne costituiscono l'architettura (il cinema americano non si è fermato a «Redacted», insomma). Bigelow tira fuori il fantasma per eccellenza del decennio americano, Bin Laden, e ne mette in scena non tanto la morte, ma soprattutto la sua caccia, e ce la racconta ponendola tutta sulle spalle di Maya, un'eroina senza onori e glorie (la gigantesca, durissima, spigolosa Jessica Chastain), guidata solo dalla sua folle tenacia. La politica (il successo mediatico e simbolico dell'operazione rilancia l'appannata stella di Obama a un anno dalle elezioni presidenziali, poi vinte, come da copione) che si fa storia (il «taglio dell'occhio» dell'11/09 trova la sua vendetta) e la storia che si plasma nel cinema (la messinscena hollywoodiana per sublimare e rendere «accettabile» una tragedia collettiva – e personale - in tre atti). Il film di Bigelow usa la forza della scrittura e quella del linguaggio per rinegoziare su nuove basi un immaginario ora privo di quel nemico a cui per più di dieci anni la più grande potenza del mondo ha dato la caccia.
Orfana del proprio Satana alieno, gli USA avevano il bisogno di ri-vedere tutto il cammino verso la meta, con una scrupolosità e un coinvolgimento nella ricostruzione degli eventi che hanno del maniacale, sì, se non fosse che tutto alla fine rientra (e sta qui la superiorità del cinema sulla storia) nella dimensione intima di un personaggio unico: Maya. È lei che, metafora stessa dell'America, assuge a figura mitica, attraverso cui passa la (ri)nascita di una nazione. È lei che può ritornare a casa (come nel più classico dei coming home) dopo essersi ripresa, nella polvere, nel sangue e nell'orrore della guerra, tutto ciò che di più importante andò perso in quella maledetta e limpida mattina newyorkese di tanto tempo fa: l'identità. Ma niente happy end, almeno per stavolta.
08 febbraio 2013 (modifica il 09 febbraio 2013)© RIPRODUZIONE RISERVATA