IL CASO
I fasti (e i nefasti) della Cesare Alfieri
Ma l’Università è ancora il tempio delle idee? O è diventato un bunker di residui poteri? Verrebbe da scegliere la seconda leggendo il documento dei dodici docenti fiorentini di Scienze Politiche
Ma l’Università è ancora il tempio delle idee, una fabbrica di libere opinioni, un palestra di scienza e democrazia? O è diventata un recinto culturale, un bunker di residui poteri, un catalogo dei peggiori vizi nazionali? Verrebbe, ahimè, da scegliere la seconda ipotesi leggendo il documento che dodici docenti fiorentini di Scienze Politiche hanno stilato e letto al Consiglio di Facoltà chiedendo poi che fosse messo, ufficialmente, agli atti.
Al centro c’è il caso dell’impoverimento di alcuni indirizzi di laurea e del tramonto della «Cesare Alfieri» come «fabbrica» dei diplomatici italiani. Un tema che è stato trattato sul Corriere Fiorentino da tre servizi, inappuntabili, scritti da Gaetano Cervone. Non una sbavatura, non un giudizio personale, tantomeno un verdetto: solo la rappresentazione del forte malumore di una parte del corpo insegnante per le crescenti difficoltà in cui si trovano il settore di studi internazionalisti (storico punto di forza della Facoltà) e di scienza della politica (altro fiore all’occhiello), mentre prende sempre più campo il comparto di studi sociologici. Dichiarazioni e analisi prive di ogni livore e sottoscritte con nomi e cognomi, commentate (e contestate) dalla preside Franca Alacevich.
Un tentativo, insomma, di fare emergere un problema reale per facilitarne la soluzione, con il massimo rispetto per l'istituzione universitaria e, se mi è permessa una nota personale, anche con il massimo affetto per una Facoltà nella quale a suo tempo io ebbi il privilegio di conoscere straordinari professori e compagni di studio (nonché Alfio, il custode — scomparso — delle nostre ansie e soddisfazioni). E, allora, perché scrivere nel documento (firmato anche da due collaboratori di questo giornale: molto stimati, credo; da noi certamente) che gli articoli del Corriere Fiorentino, «avvalendosi anche di dichiarazioni di nostri colleghi, tendono esplicitamente a sottolineare un preteso decadimento qualitativo della Facoltà», con un taglio e un contenuto «atti a danneggiare gravemente la sua immagine»?
Li ripubblichiamo tutti e integralmente, in modo che i lettori possano, se ne avranno voglia, giudicarli in piena autonomia. Tutti conosciamo le difficoltà in cui si dibattono gli Atenei italiani per la scarsità delle risorse, e anche per una catena di riforme (ma non l’ultima, quella della tanto vituperata ex ministra Gelmini) che ne hanno provocato l’arretramento nelle classifiche internazionali. Così come conosciamo, in particolare, gli ostacoli dalle Facoltà di Scienze Politiche, più penalizzate di altre dalla sottovalutazione del criterio del merito a tutto vantaggio della necessità di allargare più possibile la platea studentesca, con piani di studio confusi, annacquati, privi di qualunque spessore in vista di uno sbocco professionale coerente con i corsi di studio. E non è un mistero per nessuno il travaglio che sta comportando il passaggio delle Università dalla struttura basata sulle Facoltà alla nuova organizzazione centrata sui dipartimenti (trasversali alle vecchie Facoltà), anche con una scia di polemiche e prove di forze tra gruppi di docenti. Succede ovunque. A cominciare dalla vicina Siena.
Tutto questo però può bastare a passare sotto silenzio una stagione nella quale si sta perdendo la specificità della «Cesare Alfieri», il suo ridimensionamento nel ruolo di fucina della futura classe dirigente del Paese? Pensiamo di no. Ma quel che è più grave è che il documento si richiama al «senso di responsabilità» per chiedere a tutti i docenti che affrontino le questioni di fondo all’interno degli organismi della Facoltà «sorretti da una piena informazione circa i molteplici risvolti…», mettendo in guardia dal continuare a sollevare «tali questioni» sulla stampa «per non dare adito a ricostruzioni semplicistiche». In parole povere l’avvertimento è questo: i panni sporchi si lavano in famiglia. Ovviamente, «fermo restando il diritto di ciascun docente di esprimere liberamente in qualsiasi sede, anche pubblica, le proprie opinioni». E non è quello che i professori da noi interpellati avevano fatto? Evidentemente per alcuni i principi valgono solo finché non vengono messi in pratica. In ogni caso, al di là del linguaggio da burocrazia accademica, il documento esprime una voglia di censura che forse avrebbero esitato a manifestare perfino i funzionari del Minculpop. E fa davvero specie che parole così siano state partorite nella stanze di una Facoltà che dovrebbe formare il cittadino perfetto, titolare di doveri e diritti: di parola, di pensiero e anche di stampa, accidenti. E pensare che tutto era cominciato con lo sfogo di un professore, che su questo giornale non ha mai scritto una riga, ma che poi allegramente ha sottoscritto il j’accuse. Eravamo a Novoli, sulla piazza dedicata a Giovanni Spadolini. Già, Spadolini. E poi Sartori, Zanfarino, Tosi, Cavalli… Altri temi, altri uomini. Che nostalgia.
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